Percorsi resistenti, terza puntata

Questo articolo, il premio e i ringraziamenti vanno tutti a Silvia Tartuferi che da settembre sarà la temibile prof di matematica di un’altra scuola, di altre classi e di altri ragazzi. A lei facciamo l’in bocca al lupo per la nuova avventura consapevoli di aver perso una prof capace di fare la differenza!

Ci mancherà, tanto, ma faremo del nostro meglio per continuare a seguire il tacciato di rotta che ci ha lasciato!

La classe 3^D, lo abbiamo raccontato più volte, ha realizzato Percorsi resistenti un progetto originale di Educazione Civica e Matematica, in cui i ragazzi hanno tracciato i percorsi del Battaglione Mario sul Monte San Vicino durante la Resistenza, andando ad approfondire la storia della Resistenza nel nostro entroterra, il ruolo delle donne nella guerra di Liberazione, e le conoscenze di matematica necessarie per orientarsi tra topografia e cartografia. 

Il DS si complimenta con la 3^D e consegna gli attestati di partecipazione al Concorso “Sulle vie della parità nelle Marche”
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Percorsi resistenti

Essere donna, l’ho sempre considerato un fatto positivo, un vantaggio, una sfida gioiosa e aggressiva. Qualcuno dice che le donne sono inferiori agli uomini, che non possono fare questo e quello? Ah, sì? Vi faccio vedere io! Che cosa c’è da invidiare agli uomini? Tutto quello che fanno, lo posso fare anche io. E in più, so fare anche un figlio. 

[da Padre Padrone Padreterno, Mazzotta 1976]

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Donne, politica e società

Nonostante il COVID-19 all’IPSIA “Corridoni” non si smette mai di sperimentare!

Con la professoressa Silvia Tartuferi prima di Natale abbiamo iniziato a lavorare ad una UDA multidisciplinare con la classe 3^D. Gli obiettivi fondamentali che ci eravamo poste erano essenzialmente due: da una parte far capire ai ragazzi come la matematica che si studia a scuola possa avere delle ricadute pratiche sulla vita di tutti i giorni e dall’altra farli riflettere sulla presenza delle donne, a volte taciuta, spesso volutamente dimenticata, nella storia del nostro paese.

Cosa c’entrano la matematica e l’educazione civica? C’entrano e i risultati sono stati notevoli e da un certo punto di vista insperati e inaspettati!!!

Però sugli sviluppi del lavoro possiamo dire poco – anzi nulla – perché la professoressa Tartuferi e i ragazzi hanno deciso di partecipare ad un concorso e speriamo presto di poterne parlare meglio dando anche delle buone notizie!

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A proposito di storia, di resistenza e… di calcio!

Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.

Sandro Pertini, Dal discorso alla radio di proclamazione dell’insurrezione generale, Milano, 25 aprile 1945

Ultimamente, un po’ per lavoro un po’ per un vizio personale – reminiscenza degli studi classici forse o semplicemente la vecchiaia sempre più prossima – mi trovo spesso a soffermarmi sul significato delle parole soprattutto quando queste, o meglio l’uso che se ne fa, mi crea delle perplessità. Prendiamo ad esempio il termine RESILIENZA molto in voga quando al centro del discorso c’è la donna e la sua battaglia continua e costante per l’emancipazione e per il raggiungimento di una parità non più solo formale ma sostanziale. Se sfogliamo un dizionario e cerchiamo la parola “resilienza” troviamo questa definizione: “capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi”. Come dire: la donna è predisposta per natura a non cambiare metabolizzando i colpi che di volta in volta subisce.

C’è qualcosa che non torna…

Se cerchiamo invece il termine RESISTENZA la prima definizione in cui ci imbattiamo è “Azione tendente a impedire l’efficacia di un’azione contraria” seguita da “Opposizione, attiva o passiva, al realizzarsi di uno scopo”. Molto meglio: colui o colei che RESISTE agisce, ha un obiettivo, non subisce, cerca di impedire che qualcosa non avvenga o, aggiungo io, che non avvenga mai più.

Ecco io preferisco da sempre CHI RESISTE! E il 25 aprile, come ogni anno da 75 anni a questa parte, ci ricorda chi, uomini e donne, ha resistito opponendosi alla dittatura fascista e all’occupazione nazista ieri e chi ogni giorno oggi continua a resistere affinché la democrazia, i diritti conquistati e la libertà di cui ognuno di noi gode non vengano messi in discussione!

Noi del BlogIpsia abbiamo deciso di parlare di Resistenza, di Liberazione, di partigiani e di partigiane, di antifascisti e antifasciste e di farlo nonostante le attività scolastiche siano sospese così come tutte le manifestazioni che di solito accompagnano questa importante giornata.

Lo abbiamo fatto a modo nostro, scrivendo!

Guendalina Casasole ci ha regalato una appassionata recensione de L’Agnese va a morire di Renata Viganò: un invito alla lettura – quelle belle – ma anche un momento di riflessione su come la storia, quella con s minuscola, si intrecci e dia sostanza alla Storia con la s maiuscola. Una storia piccola piccola che ha come protagonista una donna che non ci sta ad essere resiliente e che entra in azione e resiste!

Microstoria, insomma, utile a comprendere fenomeni e movimenti più ampi, passaggi e snodi di un contesto generale che è anche il punto di partenza del lavoro di Simone Vecchioni e di Matteo Petracci. Come diciamo anche nell’intervista, avremmo voluto invitarli a scuola ma il coronavirus ci ha costretto non solo alla didattica a distanza ma anche agli approfondimenti a distanza. E così eccoci qui: abbiamo chiacchierato con Simone Vecchioni e Matteo Petracci e quello che segue è il risultato. Li ringraziamo per la disponibilità e per aver accettato di raccontare una storia di calcio che ci parla del movimento di Liberazione nelle Marche, degli eccidi nazisti e della violenza dell’occupazione nazifascista nella nostra regione e di uomini e donne che vissero quei fatti.

Buona lettura e soprattutto buon 25 aprile!

Silvia Casilio, docente – sede di Corridonia

In questi giorni si fa un gran parlare di fake news e di bufale. Anche voi vi siete in qualche modo imbattuti in una fake news rispetto ad un fatto accaduto però nel 1944. Ci potete raccontare da dove nasce la vostra ricerca e perché avete sentito l’esigenza di interrogare le fonti su una vicenda apparentemente “insignificante”, accaduta in un paesino sperduto delle montagne marchigiane?

Forse il termine fake news in questo caso potrebbe essere impreciso, nel senso che chi ha fatto riemergere questa storia dal dimenticatoio – in primo luogo il giornalista Nigri con il documentario La leggenda di Sarnano – non l’ha fatto sicuramente con l’intento deliberato di diffondere una “bufala”. Si è trattato piuttosto di una restituzione poco approfondita della vicenda, dovuta anche a difficoltà oggettive nel reperimento delle fonti. Difficoltà che in parte abbiamo riscontrato anche noi con il nostro lavoro.
L’interesse iniziale è scaturito dalla particolarità e dal fascino della storia. Quando ne sentimmo parlare per la prima volta nel 2013 ci venne presentata come la “partita tra nazisti e partigiani” ed inevitabilmente da un lato ne siamo stati attratti dall’altro abbiamo fin da subito iniziato a pensare che qualcosa non andava, che sembrava tutto troppo semplice e lineare. La volontà di iniziare con la ricerca nasce proprio da questo mix tra meraviglia – una partita del genere in quel contesto storico giocata a ridosso delle “nostre” montagne e noi non ne sapevamo niente? – e dubbio – ma può essere andata veramente così?. Inoltre crediamo che molto spesso fatti apparentemente ritenuti, appunto, “insignificanti” o quantomeno marginali siano in realtà in grado di raccontarci in maniera molto puntuale contesti e situazioni rimaste nell’ombra.

Più che di una fake news vera e proprio quindi in questo caso possiamo dire che si sia trattato di un “uso pubblico” della storia: ovvero un fatto storico dai contorni poco chiari è stato utilizzato senza una puntuale verifica storica sulle fonti per rispondere ad un dibattito in corso e per dare sostanza al tentativo di confezionare un’immagine edulcorata dell’occupazione nazista in Italia.

Si. Da un lato la storia negli anni è stata ripresa e raccontata, a volte aggiungendo “pezzi” senza alcuna operazione di ricerca a monte, semplicemente per la sua particolarità e per il suo fascino, dall’altro lato la parzialità della ricostruzione iniziale è stata poi utilizzata in maniera strumentale anche da chi cerca di riscrivere quel periodo storico. Anche per questo è importante non fermarsi alla prima ricostruzione e fare affidamento sulle fonti, è un lavoro spesso non semplice e qualche volta frustrante, ma è l’unico possibile per arginare tentativi revisionistici più o meno spudorati.

Che cosa accadde esattamente a Sarnano? E perché‚ proprio a Sarnano?

I fatti che, sulla base del nostro lavoro, possiamo dare come certi sono che a Sarnano venne disputata una partita di calcio tra una squadra composta da soldati delle truppe di occupazione nazista e un’altra formazione composta da giovani sarnanesi. La partita si disputò nella primavera del 1944, presumibilmente negli ultimi giorni del mese di aprile. Stando alle testimonianze raccolte da chi era presente in quel giorno il risultato finale fu un pareggio, anche se non siamo certi con esattezza di quanti gol vennero messi a segno dalle due formazioni. Un elemento importante emerso grazie alla nostra ricerca è quello che riguarda la squadra dei sarnanesi, infatti rispetto alla ricostruzione che è stata sempre fatta della vicenda ora sappiamo che è quantomeno superficiale parlare di “squadra di partigiani”. Nessuno dei giocatori che componevano quella formazione, almeno per quanto riguarda i nomi di cui siamo certi, è annoverabile tra le fila dei partigiani combattenti.
Perché proprio a Sarnano? Potremmo dire che la Storia mise insieme comburente, combustibile e innesco proprio in quel luogo per una serie di motivazioni diverse, anche fortuite. Non ci sono elementi particolari o specificità legate al paese che possono farci dire per quale motivo avvenne li e non altrove. Possiamo dire tuttavia che il contesto storico locale in quel momento, gli eventi anche apparentemente banali che contribuirono allo “scoppio della scintilla” si svilupparono proprio intorno a quelle mura a ridosso dei Sibillini.

Uno dei protagonisti di questa storia è Mario Maurelli: chi è e che ruolo ha in questa storia?

Sicuramente è il personaggio di questa vicenda rispetto al quale abbiamo più informazioni. Mario Maurelli era nato a Sarnano nel 1914 e si era poi trasferito con la famiglia a Roma, per poi tornare nuovamente nel borgo natio a seguito dei bombardamenti del quartiere di San Lorenzo. Maurelli nel dopo guerra divenne un arbitro di calcio molto celebre, con quasi cento partite dirette in serie A ed altri arbitraggi a livello internazionale. Ma quello che è più rilevante per la “nostra” storia è che Maurelli già nel 1944 era un arbitro, avendo frequentato i corsi a Roma già sul finire degli anni trenta. Ci interessa questo perché questo fu il ruolo che ebbe nella partita: la arbitrò, e immaginiamo che non fu facile. Se mai ci fosse stata una radiocronaca immaginiamo che il commentatore avrebbe parlato di clima rovente. Per non parlare della fase preparatoria.

Potete raccontarci il retroscena della partita?

Stando alla testimonianza di Adriana Brunori, che nel ’44 era sedicenne e inviata dalla famiglia ad imparare il mestiere presso una sarta, i soldati della Wehrmacht – quasi tutti altoatesini – che avevano impiantato il presidio in paese iniziarono a recarsi dalla sarta per piccoli lavori di rammendo. Caso volle che un giorno si incontrarono nel laboratorio un sergente maggiore tedesco – che parlava fluentemente italiano – e lo stesso Maurelli. In quella discussione emerse che Maurelli aveva una certa confidenza con il fischietto.

Fu così che al sergente maggiore balenò l’idea della partita, chiedendo all’arbitro di radunare i giocatori sarnanesi. Dalla testimonianza riportata dal fratello dell’arbitro, anch’egli scese in campo in quell’occasione, Maurelli venne anche non molto velatamente minacciato di ritorsioni nel caso in cui si fosse rifiutato di cercare o non avesse radunato i giocatori. Per l’arbitro non fu semplice radunare una squadra, e possiamo anche facilmente immaginare il perché: in quel periodo i giovani “in paese” erano o renitenti alla leva o partigiani nascosti in montagna, non molto disposti quindi ad incontrare una rappresentativa della Wehrmacht, neanche in un campo da calcio.
Non sappiamo quali parole usò Maurelli, ma sappiamo che per convincere i giocatori disse che persino suo fratello avrebbe giocato e che il sergente maggiore aveva assicurato che non ci sarebbero state ritorsioni nel caso in cui la partita si fosse disputata con gli undici in campo.

Dalle vostre ricerche quella giocata a Sarnano fu l’unica partita di calcio organizzata dai tedeschi durante l’occupazione in Europa o ce ne sono altre magari su cui altri storici hanno fatto delle ricerche?

Non furono sicuramente molte, la più celebre è senza alcun dubbio quella che venne disputata a Kiev nel 1942 – che ispirò poi il film Fuga per la vittoria – anche se con dinamiche un po’ diverse rispetto a quelle di Sarnano.

Come mai fino al documentario di Nigri della partita di Sarnano non si era mai parlato? Che idea vi siete fatti?

In realtà in paese era una storia che conoscevano in molti, ma non era mai uscita dalle mura cittadine. Probabilmente questo non è avvenuto per una singola motivazione ma per una serie di cause che si intrecciano. Intanto, probabilmente, considerando il contesto drammatico di quegli anni una partita di calcio è tutto sommato un evento irrilevante per chi si trovava a vivere quotidianamente quelle condizioni. Poi al termine della guerra quell’episodio probabilmente non era visto di buon occhio anche perché aver giocato a calcio con la Wehrmacht in quel contesto – anche se costretti – non era probabilmente qualcosa di cui vantarsi o anche solo parlare.

La vostra ricerca è finita o state ancora scavando per cercare di trovare altre fonti e altri documenti?

Diciamo che da quando la nostra ricerca è iniziata in maniera più incisiva nel 2016 si sono susseguiti una serie di eventi che l’hanno rallentata notevolmente. Primo fra tutti il sisma che ha colpito proprio l’Appennino tra il 2016 ed il 2017, per arrivare alla situazione che stiamo vivendo da qualche mese a seguito del Coronavirus. Ma parte queste problematiche il nostro lavoro va avanti, l’obiettivo è quello di continuare ad avere più certezze rispetto a quanto accaduto ed anche più elementi a disposizione per avere un quadro più chiaro.

Nell’articolo che Wu Ming ha pubblicato il 18 maggio 2019 vi chiedete se “chi, in questi anni, ha parlato in maniera disinvolta di una “partita tra partigiani e nazisti” si sia reso conto del meccanismo che questa affermazione, senza dubbio epica e mitopoetica, può innescare nei processi di costruzione della memoria e nell’interpretazione storica, elementi con cui nel nostro paese si fa ancora molta fatica a fare i conti”. Potete spiegarci esattamente cosa intendete e quale potrebbe essere il pericolo sotteso ad una narrazione di questo tipo?

Il rischio è che quella ricostruzione venga utilizzata con le stesse motivazioni che spinsero il sergente maggiore della Wehrmacht ad organizzarla: ovvero per normalizzare la situazione. All’epoca rispetto alla loro condizione di occupanti, ora per poter dire che tutto sommato il nazifascismo “ha fatto anche cose buone”, che il rapporto con la popolazione era buono al punto tale che partigiani e nazisti giocavano a calcio insieme. Questa ricostruzione della storia parziale a-conflittuale è sempre deleterio e porta inevitabilmente a discorsi e visioni tossiche.

Il 5 aprile il direttore de “Il Giornale” ha scritto, cito testuali parole: “Cari partigiani e antifascisti, fatevene una ragione: il virus non é fascista, non é antifascista e, secondo me, ride alla grande della vostra stupidità. E ci ha fatto pure il regalo uno dei pochi – di liberarci, per la prima volta nel Dopoguerra, della retorica del 25 Aprile, quantomeno della sua rappresentazione fisica nella quale, peraltro, non c’è più un partigiano a pagarlo oro”. Al di là della gravità e della faziosità di queste affermazioni – il 25 aprile è e resta con buona pace di Sallusti una “festa di tutti e di tutte” – perché‚ secondo voi è necessario che a storie come quella che avete raccontato venga restituita la loro giusta cornice nel contesto e nel tempo?

In parte per le motivazioni che ho espresso precedentemente, poi sicuramente perché queste storie ci consentono di interpretare il presente attraverso il passato andando oltre il racconto consolatorio dei “bei tempi andati”. La Storia non ci è utile solamente per conoscere il nostro passato e per evitare gli stessi errori – funzione che comunque è indispensabile – ma anche per avere gli strumenti per costruire il futuro. Da questo punto di vista va sempre mantenuto un approccio che tiene insieme la complessità dei fatti, senza mai banalizzare o appiattire le ricostruzioni. La storia è costituita da un’insieme di conflitti – termine che non va assolutamente confuso con guerre – e come tale va considerata. Aggiungo che queste storie, anche da un punto di vista metodologico, ci insegnano che a rapportarci con i fatti o anche semplicemente con le notizie in maniera puntuale e non superficiale. Tornando per un attimo all’inizio di questa intervista, contrastare la diffusione delle fake news significa avere un approccio corretto con le fonti e con la ricostruzione delle notizie. Questo non significa che poi “i dati” non debbano essere interpretati, calati nel contesto e valutati rispetto alla nostra esperienza e al nostro bagaglio valoriale, ideale e politico, ma tutto ciò va fatto a partire da elementi accurati.

Se il coronavirus non ci avesse costretti a casa lontani dalle nostre aule, ci sarebbe piaciuto invitarvi a scuola a parlare con i nostri ragazzi e con le nostre ragazze. E’ andata così purtroppo! Però, per concludere, vorrei comunque chiedervi di rivolgervi a loro – ai ragazzi e alle ragazze – spiegando perché‚ nel 2020 sia necessario ancora e ancora parlare di Resistenza, di partigiani e di partigiane e di montagne!

Mi verrebbe da dire, cosa che apparentemente appare banale ma non lo è, che è importante parlarne perché il fatto stesso di poterlo fare deriva proprio da quei partigiani e da quelle partigiane. Molto spesso, soprattutto le generazioni più giovani, tendono a dare per scontati dei diritti o delle possibilità, semplicemente perché le hanno trovate sul loro cammino già “pronte per l’uso”, come se ci fossero sempre state. Va invece ricordato che nulla di quello che abbiamo, neanche il più semplice dei diritti, è casuale o è caduto dal cielo. Tutto ciò che noi abbiamo è stato “strappato” nel corso della storia grazie a donne e uomini che hanno messo in gioco se stessi rischiando spesso l’unica cosa che avevano: la loro vita. Per questo a mio avviso è importante parlare della Resistenza e di chi l’ha animata, perché bisogna sempre ricordarsi che quegli eventi e quelle persone ci riguardano in prima persona. Parlarne significa difenderli da chi vuole negarli o utilizzarli per sottrarre diritti a tutte e tutti noi, nel presente e nel futuro.

Lo stadio nuovo di Sarnano intitolato a Mario Maurelli

Gli autori della ricerca

Matteo Petracci e Phd in Storia, Politica e Istituzioni dell’Europa mediterranea nell’età contemporanea. Cultore della materia presso l’Università di Camerino, ha pubblicato Pochissimi inevitabili bastardi. L’opposizione dei maceratesi al fascismo, dal Biennio rosso alla adulta del regime (il lavoro editoriale, 2009); I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista (Donzelli, 2014) e articoli di storia in volumi collettanei e riviste specializzate. A gennaio è uscito Partigiani d’oltremare (Pacini editore, 2020) che a breve racconteremo anche noi del BlogIpsia.

Simone Vecchioni è laureato in Scienze della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Macerata. Lavora nei campi del turismo culturale, ambiente e comunicazione. Scrive per blog e testate online su montagna, cultura, politica e sport.

Per un approfondimento si veda Sarnano ’44. Storia e leggenda di «quella partita di calcio tra partigiani e nazisti» (18/05/2019, Wu Ming)

Bella ciao – Glissando vocal ensemble – #urbisagliareastaacasa Arrangiamento di Ben Parry.

Mia nonna e L’Agnese

I tedeschi non sapevano che fra quegli uomini e quelle donne, in giro fra la neve, molti, quasi tutti, erano partigiani. Staffette inviate con un ordine nascosto nelle scarpe, dirigenti che andavano alle riunioni nelle stalle dei contadini, capi che preparavano l’azione dove nessuno l’aspettava. La forza della resistenza era questa: essere dappertutto, camminare in mezzo ai nemici, nascondersi nelle figure più scialbe e pacifiche. Un fuoco senza fiamma né fumo: un fuoco senza segno. I tedeschi e i fascisti ci mettevano i piedi sopra, se ne accorgevano quando si bruciavano.

Un romanzo di cui parlare, per il 25 Aprile.
Quale scelgo, dei tanti che esistono, dei tanti che ho letto, dei tanti che amo?

Scelgo L’Agnese va a morire.

Scelgo il romanzo che piaceva a  mia nonna, che la Resistenza l’aveva vissuta, che un partigiano lo aveva sposato.

E piaceva a mia nonna, l’ “Agnese”, perché è la storia di una donna, scritta da una donna.

Il resto (che è autobiografico, che  l’autrice, Renata Viganò, la Resistenza l’aveva fatta davvero, quando viene pubblicato) lo trovate ovunque: io vi racconto un’altra storia.

Vi racconto della Storia che s’intreccia con le storie, quelle della gente normale, senza eroismi – o con l’eroismo della normalità.

L’Agnese è una lavandaia, una donna semplice. Non fa politica, non se ne interessa. Ha un marito e una gatta. I tedeschi le ammazzano prima il marito, poi la gatta del marito. Quando la gatta muore Agnese diventa partigiana. Staffetta, come tante donne in quegli anni. Il romanzo finisce male, ve lo dico subito.

Dal ’43 al ’45 sono finite male quasi tutte le storie. Agnese muore, ammazzata come il marito, come la gatta – e, cito a braccio con il rischio di non essere esatta, ne “resta un mucchio di stracci sulla neve”.

Di queste altre parole, invece, sono sicura. Queste me le ricordo, da sempre. Perché riguardavano tutti.

Riguardano tutti.

Senza retorica, con la forza assoluta che ha la verità.

E con queste chiudo, perché non c’è nulla che renda migliore idea, di cosa sia stata la Resistenza. Niente che possa essere di più grande omaggio a chi, potendo non sceglierlo, ha scelto di farla. A chi, potendo non farlo, ha scelto di lasciarci la pelle, perché altri potessero vivere, e vivere liberi.

Ogni uomo, ogni donna poteva essere un partigiano, poteva non esserlo. Questa era la forza della Resistenza.

Ogni uomo, ogni donna

Guendalina Casasole, docente – sede di Macerata

In memoria di Luis Sepúlveda

A lungo ho pensato a quale libro avrei potuto recensire per questa rubrica che ho voluto fortemente all’interno del blog. A lungo ho pensato a quale libro avrei voluto raccontare ad uno dei miei ragazzi. A lungo ho tentato di tornare indietro con la mente cercando immagini di me adolescente sprofondata in questo o in quel libro per essere sicura di parlare di qualcosa che non sapesse di polvere e di eccessiva adultità.

Ma poi, come spesso accade, sono state le circostanze a fugare ogni mio dubbio e a mettere il punto a tutte le mie elucubrazioni. Circostanze che proprio oggi, 16 aprile, annus domini 2020, anno bisesto di cui ci ricorderemo a lungo, ci hanno privato di Luis Sepúlveda, una delle penne più belle e delle menti più fantasiose e accoglienti che la letteratura mondiale abbia mai avuto. Personalità complessa dal passato romantico, Sepúlveda, di nascita cileno ma cittadino del mondo un po’ per necessità e un po’ per vocazione, è stato per tutta la vita uno che ha resistito: prima ad una dittatura feroce, alle asperità della guerriglia poi e alla tristezza dell’esilio per gli anni a venire.

Un resistente, Sepúlveda, che però nulla ha potuto contro un virus che colpisce e semina morte in ogni dove: si è spento, il poeta, lo scrittore, il militante in una terra che non era la sua ma che lo ha accolto. Una terra resistente anche essa, una terra da cui partì la rivoluzione repubblicana spagnola e che per questo soffrì e perse molti dei suoi uomini e delle sue donne per buona parte del secolo breve. Asturias, con le sue cuencas mineras da un parte e l’oceano dall’altra, è stata per Sepúlveda casa, punto di arrivo e luogo in cui ricostruire e riannodare le fila di un destino pieno di dolori, fughe e ricongiungimenti.

Sepúlveda se ne è andato mentre era ricoverato ad Oviedo, una città a cui sono particolarmente legata e che anche per me ha un po’ il sapore di famiglia e il calore di un movimiento obrero vivo e pulsante. Se ne è andato lasciandoci in eredità le sue parole, il suo antifascismo, il suo essere partigiano – nel senso letterale del termine di colui cioè che, per dirla con Gramsci, vive veramente e “quindi non può non essere cittadino, e parteggiare” – e la sua vita, molto simile ad un’opera d’arte. Tra le tante parole con cui ha riempito la sua esistenza, metabolizzando i lutti e i dolori, dando corpo ai sogni e alle speranze, ho scelto per salutarlo uno dei suoi libri che più ho amato e che forse non tutti conoscono: Storia di un gatto e di un topo che diventò suo amico.

L’ho scoperto grazie a mio figlio piccolo: io leggevo e lui avrebbe dovuto addormentarsi… in teoria… in pratica me lo vedo ancora davanti agli occhi come fosse ora: armato di ciuccio, nel suo pigiamone di ciniglia, in piedi aggrappato alla ringhiera del lettino con gli occhi spalancati che tra una ciucciata e l’altra sbiascica “ancora”. Lo abbiamo letto tre volte in una settimana… poi ho capito che se l’obiettivo era quello di farlo addormentare era necessario cambiare libro… e siamo passati ad un altro più soporifero e più adatto al ruolo di “libro della buonanotte”.

Ecco in quella settimana di lettura attenta e ripetuta, quel libricino piccolo piccolo dalla copertina gialla è riuscito a trovare spazio nella mia personalissima libreria delle letture da cui non si può prescindere. Di tutti i libri di Sepúlveda sicuramente non sarà il più bello né il più profondo ma Storia di un gatto e di un topo che diventò suo amico è uno di quei libri capaci di parlare direttamente ai molti “io” dell’anima di ognuno di noi.

La storia sembra semplice: un bambino e il suo gatto, Mix e Max. Uno cresce e l’altro invecchia e lo fanno insieme. A Monaco di Baviera, Max va al lavoro e Mix resta a lungo solo a casa. Mix, diventato anziano e cieco, aspetta in solitudine che il suo bipede torni a fine giornata. Le sue ore trascorrono così fino a quando un giorno non si accorge che in casa, nella sua casa, c’è un topo senza nome. Lo immobilizza ma invece di ucciderlo decide di dargli una possibilità: gli dà un nome, Mex, e come se questo non bastasse, contro ogni pronostico, gli offre il suo cibo. Diventano compagni – nel senso letterale della parole e cioè di coloro che condividono il pane – e amici: Mix gli permette di avere accesso al cibo e in cambio Mex gli descrive il paesaggio circostante. Si sostengono l’un l’altro, colmando l’uno le mancanze dell’altro. Un’amicizia che Max intuisce, scopre e accetta per amore del suo fedele amico.

La storia in realtà non ha nulla di semplice e lo si capisce subito dall’incipit:

Potrei dire che Mix è il gatto di Max, oppure che Max è l’umano di Mix, ma come ci insegna la vita non è giusto che una persona sia padrona di un’altra persona o di un animale, quindi diciamo che Max e Mix, o Mix e Max, si vogliono bene.

Amicizia:

“I veri amici condividono anche il silenzio” (p. 22).

Amicizia nella diversità:

“Per tutto il tempo – lungo o breve, non importa, perché la vita si misura dall’intensità con cui si vive – che il gatto e il topo trascorsero assieme, Mix vide con gli occhi del suo piccolo amico e Mex fu forte grazie al vigore del suo amico grande” (p. 70).

Diversità che diventa superamento delle barriere:

“Un amico si prende sempre cura della libertà dell’altro” (p. 18).

Barriere che cadono per favorire la costruzione di ponti che congiungono:

“Mix era suo amico e gli amici si danno man forte, si insegnano tante cose, condividono i successi e gli errori” (p. 14).

Ponti che aiutano ad uscire fuori dalla propria solitudine:

“Un amico capisce i limiti dell’altro e lo aiuta” (p. 20).

Un bambino che cresce, un gatto cieco e un topo che diventa gli occhi dell’altro. Tre individualità che acquistano un senso nello stare l’uno con l’altro, tre vite che si sostanziano nel rispetto delle singole differenze e che nella condivisione trovano una sintesi.

La storia quindi non è una storia semplice ma è piena e complessa e assorbe completamente chiunque si trovi a sfogliare questo libricino immenso. In ogni pagina ciò che cattura e commuove è la costante ricerca della libertà.

Ma c’è di più: a rileggerlo in questi giorni non si può fare a meno di sentirsi come Mix ormai cieco e vecchio alla finestra a sognare i tetti su cui non può più scorrazzare. Anche noi, come lui, abbiamo nella memoria il ricordo del circolare liberamente, del muoversi senza impedimenti, della libertà di decidere se e dove andare. E come lui siamo in attesa e resistiamo… chissà che non arrivi presto anche per noi Mex e chissà che non sia proprio Mex ad aiutarci a guardare il mondo con altri occhi e a farci riassaporare la libertà e la bellezza dello stare insieme.

E se è vero che “la vita si misura dall’intensità con cui si vive” Sepúlveda ha vissuto una vita intensa sebbene troppo breve.

È morto, Sepúlveda, il 16 aprile a ridosso dalle celebrazioni per il 25 aprile, giorno della Liberazione, in cui ricordiamo il sacrificio di uomini e donne che durante una guerra spietata scelsero da che parte stare e lottarono per la libertà di ognuno di noi. Partigiani e partigiane. E visto che la vita si misura dall’intensità con cui si vive ci pare giusto salutare Luis Sepúlveda, poeta, scrittore, militante e antifascista, con la canzone che ci ricorda da che parte stare:

E se io muoio da partigiano
O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao
E se io muoio da partigiano
Tu mi devi seppellir

Seppellire lassù in montagna
O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao
Seppellire lassù in montagna
Sotto l’ombra di un bel fior

Tutte le genti che passeranno
O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao
Tutte le genti che passeranno
E mi diranno che bel fior

E questo è il fiore del partigiano
O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao
E questo è il fiore del partigiano
Morto per la libertà

Luis Sepúlveda

Silvia Casilio, docente – sede di Corridonia